Branding: visione, cassetta degli attrezzi e istruzioni per l’uso.
Ci vuole fegato e ci vogliono un gran coraggio e forza e determinazione per decidere, oggi, di fare azienda.
Immagino l’imprenditore come un moderno eroe, che getta il cuore oltre l’ostacolo e si mette in cammino per il viaggio che lo condurrà verso il suo obiettivo e verso mille sfide; per costruire una nuova realtà, realizzare la sua idea, concretizzare il suo sogno. Chapeau!
E noi consulenti di marketing, o di branding? Si, noi che ci proponiamo come suoi consiglieri per la parte più delicata del sistema azienda. Siamo compagni di strada? Siamo guide affidabili? A quale chiamata rispondiamo? Qual è il senso del nostro lavoro? Come ci prepariamo?
Io sono un brand strategist, mi occupo di aziende che già sono o che vorrebbero diventare brand. Significa essere di aiuto al nostro imprenditore-eroe nel trasformare un suo prodotto o un servizio o l’azienda stessa in un nome conosciuto dal suo target, amato dai suoi clienti e in grado di attrarne sempre di nuovi da rendere fedeli nel tempo.
Fare branding significa rendere un nome amato, competitivo e profittevole.
Non fa un po’ tremare i polsi? È una responsabilità grande quella che io e chi fa un lavoro simile al mio, ci prendiamo. Dalle scelte che suggeriremo all’imprenditore di fare, dal rapporto che riusciremo a creare con lui/lei, dalle nostre capacità e professionalità dipenderanno, almeno in parte, i risultati della sua iniziativa nel tempo.
Sono pronto? Sono all’altezza? Come posso migliorare?
Ci sono almeno tre domande fondamentali che io e i miei colleghi dobbiamo farci ed alle quali dobbiamo dare una risposta, prima di assumerci questa responsabilità (no, noi non possiamo essere eroi! Noi possiamo e dobbiamo essere saggi, mentori, esperti, un po’ maghi[1] magari, al fianco e un passo indietro rispetto all’eroe, che spesso, è anche un po’ sovrano).
Ed ecco le tre domande che mi sono fatto e che faccio anche a te, mio collega:
1. Quali trend, minacce o opportunità influenzano oggi la vita di un’azienda?
2. Che cosa significa, oggi, essere e fare azienda?
3. Che cosa significa, oggi, essere un brand?
Le risposte possibili sono molteplici. Non posso che dare le mie. Sono un punto di arrivo (e di ri-partenza) di un percorso di 32 anni, articolato, complesso, cosparso di molte cicatrici e qualche medaglia.
Il mondo la fuori: trend, minacce e opportunità.
Il mondo la fuori spaventa, ma, senza averne una visione chiara, il rischio di orientare l’azienda verso scelte sbagliate aumenta. Tiriamo su la testa e diamo un’occhiata.
Quella che vedo e che propongo qui è una macro fotografia generalista da declinare, di volta in volta, nel settore specifico del business di cui l’azienda si occupa. Sono elementi generali che però condizionano tutto e tutti e da qui credo che ogni nostro ragionamento debba incominciare.
Vediamo uno per uno i 18 punti più rilevanti di questa fotografia:
- Qualcosa è cambiato. I due sistemi sui quali si basavano gli equilibri del mondo occidentale (capitalismo e comunismo) sono implosi, lasciandoci orfani di un nemico e contribuendo a generare una crisi che, dopo dieci anni, cominciamo a percepire come “normalità”.
- Siamo circondati da macro squilibri: economici, politici, finanziari, ecologici e demografici. Per ognuna di queste grandi aree si potrebbero fare lunghissime liste di disastri e caduta di certezze.
- È in atto un processo di concentrazione della ricchezza in un numero sempre inferiore di mani e di impoverimento di una fascia sempre più numerosa di persone.
- Oggi, nel mondo, ci sono una cinquantina di paesi in guerra e probabilmente altrettanti popoli oppressi e/o vittime di soprusi.
- Come sempre accade nei tempi di crisi, percepiamo grandi opportunità, ma siamo disorientati dalla mancanza di punti di riferimento. Niente e più com’era prima, ma non si vedono sorgere nuovi soli attorno ai quali orbitare.
- Siamo nel bel mezzo della quarta rivoluzione industriale. Di robotica e intelligenza artificiale, nelle loro varie declinazioni, si dice che sostituiranno milioni di posti di lavoro per regalarci una vita migliore, ma, nel contesto attuale, questo nuovo El Dorado nessuno riesce ad immaginarselo e siamo un po’ eccitati e molto spaventati.
- L’avvento del web ha cambiato le regole del gioco in economia e nella comunicazione, ma è un mondo ancora giovane, un marasma di possibilità e di eccessi, positivi e negativi.
- Si afferma a livello globale il modello delle community, un nuovo spazio, un nuovo modo di socializzare e comunicare.
- I meccanismi del web circondano gli utenti di ciò che è simile a loro riducendo contatto, conoscenza e rapporto con la diversità;
- I confini fra pubblico e privato diventano sempre meno definiti.
- La sovrabbondanza di informazioni e l’incerto valore e fondatezza di moltissime di queste, rendono difficile l’informazione stessa e quindi la comprensione dei fatti.
- Siamo tutti oggetti di una globalizzazione che spersonalizza in nome del minimo comune multiplo e che, subdolamente, ha prodotto una progressiva rinuncia identitaria e in parte svuotato il senso delle nostre vite. E invece, tutto lascia pensare che un senso, abbiamo proprio bisogno di ri-trovarlo. Il bisogno di riscatto, di elevarci, di un nuovo modo di interpretare sia la quotidianità, che la ricerca del benessere e del successo, sono ben presenti.
- I consumatori sono diventati più cinici e opportunisti, delusi dalle performance e dal risultato del consumismo e di molti grandi brand. I consumatori sono preoccupati dal loro diminuito potere di acquisto, sono attentissimi a quello che accade, a quello che comprano e a come lo comprano.
- I consumatori non comprano più per l’accumulo fine a se stesso, non se lo possono più permettere e hanno capito che due auto non rendono più felici che un’auto sola, come il peggiore consumismo ha voluto far credere.
- Abbiamo capito che le risorse del pianeta terra non sono infinite. E qualcosa si muove.
- Il concetto allargato di salute, definita come “Uno stato completo di benessere fisico, mentale e sociale”[2], condiziona ormai i comportamenti della grande maggioranza delle persone, tutte più attente e più sensibili a questo tema.
- Sempre più spesso la parola “etica” compare a fianco di termini come business, vendita, azienda.
- Spesso confondiamo la velocità, la facilità e la comodità con le quali oggi comunichiamo (o pensiamo di farlo), con quelle con le quali viviamo.
Il divenire di ciascuno di questi elementi è destinato a cambiare sensibilmente le nostre vite e quindi anche il nostro rapporto con le cose ed i servizi che acquistiamo. Ognuno di questi item andrebbe tenuto sotto controllo e dovrebbe farci riflettere per comprenderne gli sviluppi e prevedere l’impatto che può avere sulla nostra quotidianità e su quella delle aziende per le quali lavoriamo.
Fare ed essere azienda: un privilegio e una responsabilità
Porto in ogni gesto del mio lavoro l’enorme rispetto che ho per l’entità “azienda”, in tutte le sue accezioni, dimensioni, localizzazioni. Da consulente considero l’azienda, o meglio, il FARE AZIENDA, come il primo dei miei valori.
Da sempre, fare azienda, ha significato avere un prodotto o un servizio che motivi lo scambio di valore con un cliente. Presupposto tuttora indispensabile, ma non più sufficiente.
Fare azienda oggi significa anche avere una visione di utilità anche collettiva del proprio lavoro.
No, non c’entra niente il filantropismo. C’entrano invece:
- il sogno di un cambiamento in meglio della qualità di vita dei clienti,
- l’impegno di impatto ambientale zero (se non di beneficio).
- l’assenza di sfruttamento, discriminazione e soprusi nei processi di produzione, distribuzione e vendita.
- Fare azienda significa attrezzarsi per osservare attentamente il mondo intorno e nutrire, con gli input ricevuti, una naturale e inesauribile propensione al cambiamento ed all’innovazione continui, parte indispensabile del DNA di un’impresa moderna.
- Fare azienda è una responsabilità (distribuita proporzionalmente al rischio), di tutti quelli che nell’azienda e per l’azienda lavorano, oltre che delle istituzioni che dovrebbero sostenerla e incentivarla.
- Fare azienda significa prendersi anche la responsabilità di costruire e difendere un patrimonio civile e sociale che generi prosperità e benessere per l’imprenditore, per tutti gli attori dell’azienda stessa e per la collettività. Per ciascuno l’azienda è o dovrebbe essere, un esempio che ispira.
- Fare azienda significa infine, per l’imprenditore e per tutti i suoi lavoratori, possedere uno strumento di libertà individuale.
Insomma, vedo nell’azienda un nucleo sociale importantissimo per il tessuto anche civile di un paese. Il lavoro ed i luoghi nei quali questo si svolge possono essere momento di unione, creazione e condivisione di valore e valori.
E poi, dedichiamo al lavoro una parte molto importante del nostro tempo e dobbiamo grande attenzione e rispetto al lavoro stesso e a questo organismo; sia per l’impatto che la qualità della vita in azienda ha sulle nostre stesse vite, che per quello che un’azienda ha sulla società esterna
Essere brand: il senso di una promessa da mantenere nel tempo
Il brand, nato come bisogno di distinguere un bene, è diventato un elemento di distinzione individuale. Dalla marcatura del bestiame per certificarne la proprietà, ai 7 milioni di vasetti unici della Nutella per supportare un’identità.
Tanta acqua è passata sotto i ponti. Ma parliamo del presente e dividiamo in due il significato dell’essere un brand:
· Qual è il ritorno dell’investimento dell’azienda diventata marca?
· Quali sono i fattori che inducono i consumatori a riconoscerla come tale?
In altre parole, qual è il senso dell’essere brand per un’azienda e quale quello per i consumatori?
La promessa che il diventare ed essere brand fa all’azienda è quella di conquistare competitività e profittabilità crescenti nel tempo.
Questo è reso possibile da 8 vantaggi specifici e diretti per l’azienda che riesce ad affermarsi come marca:
- Nuovi clienti scelgono il Brand perché altri clienti lo hanno già fatto (riprova sociale).
- Un Brand azzera la percezione di rischio e abbassa le barriere all’acquisto. Un Brand non ti delude mai.
- Un Brand genera fedeltà. I clienti ritornano e ritornano e ritornano.
- Un Brand genera ingaggio e condivisione. I clienti diventano ambasciatori del Brand. Creano community.
- Un Brand azzera la trattativa sul prezzo. Il valore percepito è spesso più alto del prezzo pagato. Un Brand non si sceglie per il suo prezzo.
- Un Brand è un valore economico misurabile e ascrivibile a bilancio. Il Brand è un asset immateriale a tutti gli effetti.
- Un brand genera consapevolezza interna all’azienda, forza, coerenza, unità d’intenti e chiarezza di direzione.
- Un brand rende l’azienda attraente per i migliori cervelli del settore che, alla marca, si sentono affini.
E adesso il punto di vista dei consumatori. Cosa fa sì che un brand, oggi, sia riconosciuto come tale:
- Scegliamo, compriamo e rimaniamo fedeli a brand che attivano positivamente i nostri sensi in ciascuno dei punti di contatto con la marca.
- Scegliamo, compriamo e rimaniamo fedeli a brand che ci sono utili, che funzionano bene, anzi benissimo, che producono costantemente innovazione di valore per risolverci brillantemente un problema (anche latente, nascosto o inconfessabile) e renderci la vita più facile.
- Scegliamo, compriamo e rimaniamo fedeli a brand che:
- ci danno un senso di appartenenza, completano o arricchiscono la nostra identità,
- ci fanno provare emozioni,
- ci fanno sentire partecipi, utili ad una causa o ad un ideale,
- trasmettono e rispettano valori importanti,
- ci ispirano a condividere un significato più profondo del vantaggio o del beneficio funzionale anche per e con altri da noi.
- spostano il focus dai benefici per il singolo ai benefici per la collettività, dalla differenziazione di prodotto alla promessa per molti.
- Un brand degno di questo nome trasforma alcuni consumatori in promotori: crociati, fan, ambasciatori, che si riuniscono in una community, basata sulla convinzione di dare un contributo, anche infinitesimale, a qualcosa di più importante del loro destino di singoli e che si identificano con un sogno, un ideale, qualcosa di più grande dell’interesse del singolo individuo.
Concepisco il brand come un insieme strutturato ed armonico nel tempo di elementi tangibili e intangibili che hanno l’effetto di migliorare concretamente la qualità della vita dei consumatori.
Veniamo attratti da quello che i nostri sensi percepiscono al primo contatto come bello, utile, inusuale e rimaniamo stregati dall’emozione, dal senso profondo, dalla sintonia con qualcosa che ci risuona dentro, che ci dà calore, che suscita in noi sentimenti e desiderio.
Neocorteccia, cervello limbico e cervello rettile che si attivano, iniziano a scambiarsi informazioni e a produrre ormoni che ci fanno stare bene. Un brand è un fatto di fisica e di chimica.
E questa è anche la vita, l’insieme e l’unione di aspetti tangibili, cose concrete e percepibili, con aspetti intangibili, legati alle emozioni ed ai sentimenti, alla nostra natura di esseri umani, terribili e meravigliosi allo stesso tempo. Un brand che si rispetti rispecchia una parte della nostra vita.
Un nuovo contratto deve legare il brand con il suo target. E’ un contratto di fedeltà e lealtà reciproca nel tempo, di scambio di valore, di promessa di innovazione e di impegno verso ciascuno e verso il pianeta.
Dalla visione alla cassetta degli attrezzi del brand strategist
Dalle risposte alle tre domande deriva la mia visione: essere brand strategist significa comprendere complessità e opportunità di un mondo che cambia costantemente i suoi connotati per accompagnare l’azienda in una trasformazione: da produttrice di beni o servizi anche eccellenti, a portatrice di una promessa mantenuta nel tempo:
- di un beneficio collettivo,
- di un significato che arricchisce
- di un sogno che prende forma.
La cassetta degli attrezzi che io e le persone di movi-menti abbiamo costruito negli anni discende da questa visione e la traduce in un atteggiamento coerente di etica e responsabilità e in un metodo di lavoro al servizio degli obiettivi dell’azienda e del brand[3].
La nostra cassetta degli attrezzi si chiama MY BRAND STRATEGY.
È di fatto un sistema basato sull’analisi e lo sviluppo di 9 elementi fondanti, 9 pilastri, preceduti da una fase di analisi e seguiti dalla realizzazione del piano che ne è il risultato.
Quindi 4 fasi:
Prima fase Brand Check.
Analizziamo e misuriamo con un nostro strumento le potenzialità dell’azienda e lo stato dell’arte in termini di brand.
Seconda fase Strategia.
Quando iniziamo un intervento di consulenza per un’azienda, per trasformarla in brand o riposizionarla, incominciamo sempre da un elemento incredibilmente trascurato nelle pratiche del brand management; lo studio dell’identità e dei valori aziendali.
Poi affrontiamo l’analisi del cliente, del prodotto e del settore, con metodi e strumenti diversi e specializzati.
A seguire lavoriamo sul posizionamento, frutto e distillato dei ragionamenti strategici sul cliente, sul prodotto e sul settore; definiamo il mercato, e la promessa del brand e scegliamo l’angolo di attacco alla concorrenza in quel determinato momento e in quella specifica situazione, ma non solo.
La domanda alla quale una buona operazione di posizionamento dovrebbe rispondere è: “Cosa del tuo brand mi può spingere non solo ad acquistarlo, ma a diventarne un sostenitore, un paladino, un fan?”
Oggi essere brand significa ispirare la passione e l’ingaggio necessari a creare una community e una community si basa sul coinvolgimento di persone che pensano di dare un contributo, anche infinitesimale, a qualcosa di più importante del loro destino di singoli, una community nasce sull’identificazione con un sogno, un ideale, qualcosa di più grande dell’interesse del singolo individuo.
Il brand comunica e lo fa attraverso dei segni, verbali e visuali; di questa comunicazione definiamo le linee guida, affinché ogni parola (verbal identity) e ogni immagine (visual identity) rafforzino lo scopo tangibile e l’essenza intangibile del brand.
Ma il brand non è autosufficiente ed ha bisogno di un business model per esplicitarsi. Business model e brand vanno a braccetto.
Zara, le compagnie aeree low cost emerse negli ultimi due decenni, Amazon, Yellow Tail, Coca Cola, Netflix, Uber, le catene dell’Hard Discount sono tutti brand dove il business model ha avuto una importanza fondamentale nell’affermazione della marca.
Ma anche quando il business model non sovverte le regole del gioco del settore, è un argomento che deve ricevere la nostra massima attenzione poiché condiziona anche il risultato di due fattori determinanti del brand: la sua profittabilità e l’organizzazione dei punti di contatto con i clienti. Dal primo deriva la sopravvivenza dell’azienda, dal secondo l’esperienza e la percezione del brand da parte dei clienti.
Terza fase Progetto esecutivo
L’Executive Plan (in azienda, offline, sul web) è un documento concreto e realistico, basato:
- sulle evidenze e sulle idee emerse dai primi 8 pilastri,
- sull’esperienza, l’impegno e il buon senso che servono per realizzarle,
- sul chi fa cosa, dove, come e quando,
- sui risultati da raggiungere.
L’Executive Plan è piano di lavoro ed è una previsione organizzata. In-esatto per definizione in quanto previsione, ma indispensabile alla navigazione come le mappe e la rotta per una nave.
Quarta parte Realizzazione
Mettere in pratica strategia e progetto, diventare un brand e fare la differenza. In questa fase il nostro ruolo è quello di project & brand manager e di integratori di quanto serve all’impresa per portare a compimento il piano.
Istruzioni per l’uso
Come essere veramente di supporto all’imprenditore e all’azienda che vogliono diventare brand o consolidarlo?
Se sei interessato ad approfondire i contenuti di MY BRAND STRATEGY, puoi trovare quello che cerchi sul nostro sito.
Inoltre, per questo articolo, ho scritto le 12 regole d’oro per essere un buon consulente d’azienda, un mestiere piuttosto complicato.
Ricorda che la consulenza è una relazione di fiducia e la fiducia si costruisce con fatti e percorsi coerenti dove, si, l’esperienza conta.
Il mio primo intervento di consulenza, 22 anni fa, si concluse con una grande litigata con l’imprenditore e molta fatica per ottenere il pagamento di quanto dovuto. Quello stesso imprenditore, dopo 4 anni di silenzio totale, mi cercò, mi raccontò che in tutto quel periodo, avevano “campato di rendita” sui risultati del mio lavoro e mi offrì un altro incarico, molto più importante del primo. Ergo: avevo fatto un buon lavoro, ma non ero stato in grado di farlo percepire al mio cliente. Una responsabilità tutta mia.
Le 12 regole del Consulente d’azienda:
Regola nr. 1
Definisci senza equivoci chi è il tuo interlocutore (uno e uno solo), ma parla con tutti.
Regola nr. 2
Definisci chiaramente con il tuo interlocutore gli obiettivi reali del tuo lavoro, mettili per scritto, condividili e misurali.
Regola nr. 3
Condividi regolarmente il risultato del tuo lavoro con il tuo interlocutore attraverso report scritti e analisi congiunta degli stessi, al massimo ogni due settimane.
Regola nr. 4
Cerca i numeri dell’azienda e verificali. Fatturato, numero di dipendenti, numero di prodotti venduti, prezzi unitari, numero di clienti, fatturato medio per cliente, sedi, negozi, stabilimenti, sono tutti parametri che devono avere una coerenza, incrociali fra loro e più riesci a segmentarli meglio è (dividi i clienti per fasce di età, i ricavi per prodotto, le vendite per negozio, ecc.). Un azienda è un fatto di numeri, ti servono per capire se è sana, se l’imprenditore ed i manager hanno consapevolezza anche numerica di quello che gestiscono. Leggere i numeri ti aiuta ad evitare trappole pericolosissime e se le eviti tu le evita pure l’azienda.
Regola nr. 5
Fai tante domande. Preparale prima. Vai fino in fondo.
Regola nr. 6
Non trarre conclusioni affrettate. Prenditi il tempo. Elabora mentalmente tutte le informazioni che acquisisci. Discutile con i tuoi colleghi e con il tuo interlocutore.
Regola nr. 7
Segui il processo. Qualunque sia l’argomento che tratti, è legato ad uno o più processi. Seguili per capire come funziona veramente. Niente è come appare.
Regola nr. 8
Non essere un “signorsì”. Non sei pagato per dare ragione a chi ti ha chiamato (altrimenti faceva da solo), ma per aiutarlo a fare meglio. Dire “no” è scomodo, ma se non sei d’accordo hai il dovere di dirlo (con i dovuti modi naturalmente). Certo che l’azienda non è tua e la scelta finale non spetta a te, ma il tuo ruolo è pensare prima di tutto e poi dire come la pensi, motivando il tuo pensiero. Vedrai che apprezzeranno.
Regola nr. 9
Ascolta. Tutto e tutti. Chiunque faccia un lavoro in quella azienda sa cose che tu non sai e tendenzialmente te le racconta. Anche se pensi che siano stupidaggini fanne tesoro.
Regola nr. 10
Non ti fermare e non trarre conclusioni prima di avere la big picture. Un quadro completo dell’argomento affrontato. Solo dopo puoi cominciare a trovare soluzioni. Condividi sempre le soluzioni con il tuo interlocutore. Se ti dice “Non è possibile.” assicurati che sia veramente così, se ti dice “Si può fare.” metti in discussione la tua soluzione.
Regola nr. 11
Sii riservato. Tieni per te tutto quello che ti raccontano e usalo solo se ne sei sicuro e se serve a risolvere il problema per il quale ti hanno chiamato; in caso contrario dimenticalo.
Regola nr. 12
Comportati sempre come se in quell’azienda ci dovessi lavorare per il resto della tua vita. Quando fai il consulente, “loro” non sono “voi”, ma “noi”.
Sono regole generali, che valgono per ogni consulente e per ogni azienda e penso che rispettarle ti sarà molto utile.
Conclusioni
Ogni azienda può diventare un brand: si, piccola, media o grande azienda, B2B o B2C, di prodotto o di servizio. La sfida è ambiziosa, i requisiti di base alti e il percorso lungo, ma la ricompensa per l’azienda è cospicua e il senso, per il mondo la fuori, molto alto.
Diventare un brand è un progetto di lungo periodo, ma riuscirci mette al sicuro l’impresa dalla guerra sui prezzi, dalle mode passeggere, dalla volubilità dei mercati.
Certo un brand va anche mantenuto, ma una volta arrivati tutto diventa un po’ meno complesso.
In tutto questo noi consulenti di branding possiamo dare un grande contributo, ma anche fare grandi danni. La prima responsabilità che abbiamo è quella di dire “No.”
“No” ad aziende che non hanno nulla da dare, “no” ad aziende non etiche, “no” ad aziende che si aspettano una bacchetta magica invece che metodo, percorsi e lavoro.
“NO” anche ad aziende per le quali non siamo pronti, adatti, preparati.
E quando diciamo “Si”, beh ci siamo presi un impegno grande e abbiamo il dovere di rispettarlo, magari anche con un po’ più di comunicazione o di collaborazione trasversale che non guasterebbe.
Le ultime due parole sulla comunicazione web (nostra, ma soprattutto per quello che consigliamo ai nostri clienti).
Dobbiamo fare scegliere i nostri clienti dai loro clienti non martellando questi ultimi di banner, spot, email, post, sms, o altro, ma facendoci trovare (noi e il nostro cliente) nel posto giusto e al momento giusto, nel rispetto della privacy altrui, raccontando chi siamo, assumendo comportamenti coerenti con quello che diciamo di essere e fornendo prodotti e servizi che mantengono le promesse.
Non lasciamo che le incredibili opportunità di comunicazione aperte dal web lo trasformino nel mostro di cui sta già assumendo sembianze e connotati preoccupanti; i giganti del web non sono poi così amichevoli né tantomeno innocui. Il web, che tanto ci avvicina, che ci permette di dialogare ed interagire con i nostri target e che a tutti lascia uno spazio, questo web, utilizziamolo con etica e rispetto.
Proprio perché attraverso il web possiamo comunicare tutto questo e coinvolgere chi è affine, contiguo, sensibile al “discorso” del nostro cliente, prepariamolo bene, sia questo “discorso”, che i fatti che devono confermarlo e sostenerlo e comunichiamolo ancora meglio.
Questo articolo è il frutto della ricerca e delle esperienze che io e le altre persone di movi-menti abbiamo fatto in questi anni. Per noi è più un punto di partenza che di arrivo, ma segna un profilo preciso nella nostra concezione dell’essere brand e del fare Branding nel XXI secolo.
Con le idee espresse in questo articolo abbiamo iniziato il nuovo millennio e così vogliamo interpretarle nel tempo e nelle occasioni a nostra disposizione.
Ci siamo per i colleghi e per le aziende, per aiutarle ad esprimere tutto il potenziale dei loro progetti e delle loro idee e trasformarlo in oggetti o servizi innovativi che generano prosperità, migliorano la vita delle persone e riempiono questo nostro mondo di senso profondo e positivo per tutti.
Ci trovi sul nostro sito e sul giovane e pimpante gruppo BRANDING NEL XXI SECOLO. Unisciti a noi!
E intanto grazie per essere arrivata/o fino in fondo!
[1] “L’uomo non osi separare ciò che l’Archetypal Branding unisce” – Riccardo Donato – Editore Flacowski
[2] Definizione dell’OMS (Organizzazione Mondiale per la Sanità)
[3] Tanto per essere chiari e dare a Cesare quello che è di Cesare, dichiaro pubblicamente che il più importante modello di riferimento dei miei ragionamenti sul brand è Jean-Noël Kapferer, uno dei consulenti di branding più influenti del mondo. Se già non lo conosci ti consiglio di leggerlo.